I FIGLI NOSTRI

Navigano –i figli nostri- libri/tastiere e, bassa, di mestiere non sudan la terra.

Ebbre hanno vene di ritmi e parole

(anche Teo irreducibile erra sull’informatica rete)

e alle spalle, curve un poco per dissociate diete

e invisibili assedi di cellulari loquaci,

senza tempo aie si gettan battute da tramontane secche e rapaci.

Ne faremo minuziosi cassieri, previdenti assicuratori,

disincantati ingegneri, geniali scienziati, periti industriali, colti professori,

emeriti primari, brillanti avvocati, abilitati farmacisti, veterinari, scudettati calciatori

e i più sognatori, forse, poeti/archeologi  satellitari

chè di sabaudi carlini (rari) bronzeo un arcavolo

(a radice affondate le mani tremanti)

al campo ha carpito capaci orci dai fianchi sonanti

e ne ha fatto altri campi, ampi cortili, tozzi casali,  bestie di razza, solatii filari,

pozzi perenni e ancora denari.

Voce rassegnata gli diamo

(formale incombenza soltanto)

clemenza d’abbraccio a sera tessuto d’incanto

che, per sana prudenza, non tirino l’alba.

Jeans azzurri iper (d)alla  moda scialba quotati  benchè resistenti) qua e là sfregiati,

ipomaglietta d’ombelicale taglio (accorciata, quasi per sbaglio, da maldestro/sadico lavaggio)

chioma fluente nel gel spasmodico (magico/lucente),

canzoni in cuore lente

o, sulle labbra, pseudoversi di rapido assaggio.

Con Zozzo oltre città non si vada senz’inviare fulmineo un messaggio,

tra ignei fanali troppo sul selvaggio asfalto non si corra forte

chè impressa – nel libro stinto- sol non è dei vecchi l’improvvisa morte.

Meglio in casa di Gabo, tra roventi spicchi di pizza capricciosi, concordi e oziosi assediar la sorte

e – semplici – sentire che si è più che di sangue fratelli  quando infranti orpelli di calciopoli balordi,

incredibili bagordi di principi e favole banali (di principi avare morali)

procaci forme di cortigiane laide (Bianchenevi artefatte d’aggrovigliate faide),

labirinti siderali d’intercettazioni telefonico/ambientali

(le addentano mediatici gli ‘squali’ emersi dal fondo di cento e più canali)

dai policromi oracoli nazional/locali

tragicomico ‘masque’ d’incessanti carnevali) nell’anima prorompono letali.

La fede nel tempo che resta – indimenticabile Barby – mesta caparbi la prendon dai padri.

A quadri intanto “il sole – per dirla col cugino di Cesare – ‘vestito di bianco,

con le mani alla schiena e il volto abbronzato’ – si leva che il giorno è vecchio per noi”.

Cieli turchini di pace e poi stelle continuano a sognare – i figli nostri – cadenti d’innocenza,

silente pazienza che foglie di gelso in seta ha trasformato,

inesauribili cisterne di bontà/clemenza, resistenza di mole

che, cigolando, grano e avena sovrapposte han macinato.

Crociato un ragno (ignaro che Sisto Papa neppure a Cristo ha perdonato)

grazia la mosca nella rete incatenata, fra muro tesa e pergolato.

Giovanni Galli