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Aveva lavato i più piccoli dentro il catino.
Sfregato col sapone le ginocchia, il collo,
la piega delicata delle orecchie.
Il fuoco era acceso. I corpi fumavano.

Aveva lustrato le scarpe, spazzolato le giacche,
messo un nastro nei ricci della bambina.
Poi era uscita: il piccolo in braccio,
un altro per mano. I più grandi seguivano.
Camminavano svelti, gli occhi abbassati,
i corpi stretti dentro i cappotti.
Quel giorno mia nonna andava a fare un ritratto.
Voleva una foto dei figli da mandare al marito.
In Abissinia – dicevano,
il sole a Natale brucia ancora le pietre
le donne hanno sguardi che fanno tremare le tigri.
Lì, invece, l’inverno splendeva sui loro capelli,
il ghiaccio copriva i rami dei pioppi.

Il fotografo li compose come un mazzo di fiori.
Tre davanti e tre dietro.
Aveva aggiustato le frange, i fiocchi, i colletti.
Tutti fermi. Sul viso lo stesso stupore.
Mia nonna manderà quella foto al marito.
Scriverà che tutti crescono bene, che il più piccolo
ha messo due denti, che deve comprare
scarpe nuove, e le maglie, e i quaderni.
Tacerà del freddo che ghiaccia i canali,
del gelo che s’attacca sui vetri, dell’olio finito.
Tacerà del settimo figlio che le scalcia nel ventre.

E’ successo l’ultima volta che lui era tornato.
Aveva addosso l’odore dell’Africa.
Ogni notte saliva sopra il suo corpo e spingeva nel buio –

a non fare rumore, attento – che i bambini poi sentono…
Lei restava con gli occhi fissi sulla finestra e la paura
che lui le piantasse nel ventre un altro bambino.

Adesso gli spedisce la foto.
Non gli dice del figlio che le ingrossa le vene.
Non vuole parlargli del peso che già preme contro le ossa
e reclama il suo pezzo di letto, un lembo di fame, una voce,
la saliva che brilla e scava il suo nome nel buio.

Daniela Raimondi