Mi pareva di non aver chiesto
Mi pareva di non aver chiesto
permesso, ma di essere arrivato,
era come vivere fuori dalla porta di casa,
non sentire nulla, solo vederli muovere,
negli spazi, con i loro nomi,
e lasciare che fosse,
sedersi comodi, a guardare
con le braccia incrociate
e semplicemente stare,
sentire la consistenza del pane
portare il bicchiere alla bocca
e berne l’acqua,
ed era come avere ombrelli a righe:
uscire di casa più volte, poi tornare,
o fare finta, sbattere la porta, simulare,
dire mare,
era come sentire dentro
un imperfetto acustico, fermarsi
in mazzi alla strada, costruire muri:
poesie provate, fatte a tentativi
tornando indietro , voltandosi,
lasciandosi orientare,
vedere allegorie delle cose passate
e minacce nuove sul presente:
forse solo luci, forse solo alberi in fiore,
dialogare con una colonna,
guardare il cellulare,
e, davanti alle candele, lasciarsi andare,
arrivare alle risate dicendo sempre – buonasera –
con compostezza nuova, fare gesti
con le mani e fissare muoversi le automobili,
guardare la teoria dei cancelli serrati e chiusi
a bordostrada, ascoltare l’aria:
farla venire dentro, o come tanti tenerla fuori,
poi indicare la meta con la mano,
poi dire che sto male, poi benedire il male,
poi di nuovo bene, e relativo male,
poi vasi di fiori sulla più piccola finestra,
e lui che la panna montata non la vuole,
dove mi aspettavano non c’ero,
ed era come stare sopra,
era tutti come dire silenziosamente – cielo –
ma universo cielo,
e cose altre, cose di sempre,
che non penso realmente
Francesco Guazzo