La vita di Fellini

 

Federico Fellini, nasce a Rimini nel 1920 e vive un’adolescenza dissipata più volte in fuga verso il mondo di suoni, colori ed emozioni del circo, vede l’occupazione fascista della sua città e prima dei 19 anni si trasferisce a Roma. Dopo aver lavorato nel giornalismo satirico e nei fumetti si avvicina al cinema nell’ambito del neorealismo radicale con Roberto Rossellini (collaborerà da Roma città aperta a Europa ’51), maestro e ispiratore. Il sodalizio con Rossellini, per Fellini, è una grande scuola soprattutto di morale. Già nelle sue prime sceneggiature si nota il particolare approccio fatto di caratterizzazioni, ironia e umorismo che sottenderanno tutta l’opera felliniana velata anche da un’aura memoria. L’esordio del cineasta riminese risale al 1951 nel lungometraggio Luci del varietà che con Lo sceicco bianco e I Vitelloni (nei due anni successivi) forma una specie di trilogia sulla provincia attraversata da un distacco nei confronti del neorealismo per un ampio spunto autobiografico sul proprio passato, vissuto e carico di nostalgia. In queste tre pellicole Fellini inizia a trarre spunto dai suoi ricordi, sviluppando mondi a lui congeniali: quello dell’avanspettacolo nel primo, quello dei fumetti nel secondo e quello della personale giovinezza provinciale nel terzo. Dopo il primo vero e proprio momento narrativo del Fellini regista, si apre una seconda trilogia cosiddetta della redenzione ambientata nel mondo degli umili e degli emarginati, formata da: La stradaIl bidone e Le notti di Cabiria, girati dal 1954 al 1957, in cui il semplice autobiografismo cede il posto alla considerazione amara e allo stesso tempo fiduciosa del fallimento dell’esistenza e del suo riscatto sul piano d’una nuova e vera umanità autentica. Fondamentale però è sempre il tessuto di memorie dove nascono i soggetti del vecchio truffatore (o meglio bidonista) ormai incapace di svolgere correttamente il proprio mestiere e morto per questo (nel Bidone) e della protagonista di Cabiria: una prostituta ingenua crudelmente ingannata e schiava del suo destino; film che gli valse -come La strada– il Premio Oscar come miglior film straniero e una prima affermazione.

Lo stile così si fa sempre più personale abbandonando ormai tutti i canoni del neorealismo verso un’ apertura stilistica che contrassegnerà le opere della maturità per le quali Fellini è ricordato tra i più grandi narratori contemporanei. Nasce così La dolce vita (1960) definito da lui stesso un affresco picassiano di una Roma affascinante e turpe attraverso uno stile che abbandona i tradizionali schemi narrativi, cui segue un episodio di Boccaccio ’70 (1962) il satirico ed esilerante Le tentazioni del signor Antonio. La profonda crisi interiore porta ad  (1963, nuovo Oscar) vertice complesso e tortuoso dell’arte criptica e visionaria di Fellini (splendidamente raffigurato da un Marcello Mastroianni, qui più che mai alter ego del regista) in cui i suoi tormenti si materializzano davanti alla macchina da presa per poi dissolversi, in un finale che è un inno all’umanità e alla vita stessa. Con Giulietta degli spiriti (1965) il cineasta riminese adotta per la prima volta il colore in una particolare chiave espressionista  per analizzare il mondo della moglie (Giulietta Masina, spesso interprete, sempre protagonista del mondo felliniano) e iniziare un processo narrativo rapsodico e circolare che, dopo un documentario televisivo: Block-notes di un regista, 1969, giunge alla trasposizione picaresca del classico di Petronio in Fellini Satyricon (1969). Qui si apre una nuova trilogia questa volta incentrata sul tema della memoria composta da: I clowns (1970) riflessione su sogni, scoperte e stupori dell’infanzia, Roma (1972) documentario fantastico d’ispirazione visionaria e crudele sulla “città eterna” fascista degli anni ’30 e personale dei ’70, e sopratutto Amarcord(1973 ed altro Oscar per miglior film straniero) lettura dialettale dell’italiano “mi ricordo” dove l’autobiografismo memoriale, trionfa nel viaggio in quella Rimini della giovinezza, lasciandosi alle spalle irreale umorismo e profonda malinconia. Del 1976 è Casanova uno dei momenti più alti dell’oniricità felliniana per il complesso nevrotico del protagonista storico; seguirà un’allegoria politica ma allo stesso tempo estetica ed etica (Prova d’orchestra, 1979), ed un autoritratto incentrato sulla memoria e sulla fantasia del viaggio di un uomo sul “pianeta donna” (La città delle donne, 1980).

Si apre così l’ultimo decennio narrativo di Fellini arricchito da nuovi piccoli capolavori: un diario di bordo di un tranquillo transatlantico quando scoppia la notizia dell’imminente Grande guerra, terribile e disincantata metafora di un mondo che va sempre più verso l’abisso (E la nave va, 1983), una storia malinconica e tenera di due anziani ballerini, confusi e spaesati di fronte ad un megaspettacolo dei media moderni (Ginger e Fred, 1985) e un ritratto su un regista, un uomo che “non ha niente da dire, ma sa come dirlo” come si esprimere in questo lavoro, in cui il passato e presente paiono fondersi e collimare totalmente, lo stesso Fellini (Intervista, 1987). C’è ancora tempo per un ultima favola, la trasposizione di un testo contemporaneo di Cavazzoni, La voce della luna (1990), che diventa un commovente addio del regista romagnolo tra morte, follia, vecchiaia e solitudine, una fiaba di immagini percorsa da una disordinata ricchezza inventiva, una poesia in pellicola contro il rumore di fondo e sulla necessità del silenzio, in una realtà serrata ai sentimenti. Nel 1993 poco prima della scomparsa, l’Accademia delle arti e delle scienze cinematografiche americana consegna a Fellini l’ultimo Oscar, il più importante quello alla carriera: in omaggio a uno dei più grandi narratori del grande schermo, come recita la motivazione ufficiale. Ora riposa in quella Rimini, lì dove si è inventato, un’infanzia, una personalità, nostalgie, sogni e ricordi, solo per il piacere di poterli raccontare, al cinema.