Jucci (Mondadori)

Motivazione:

 La “narrazione dei fatti” (37) di Jucci dipende dalla forza del nome di questa figura femminile che agisce a distanza di tempo come senhal, nome fittizio di vita e di poesia. Per la vita valgono le note private che raccontano la storia d’amore intercorsa tra i due dialoganti, Jucci e l’io poetante il cui legame, iniziato nell’ “inverno dei vent’anni” (9), dura “un decennio” e si conclude con la morte di lei per un’incurabile malattia, perno della riflessione sul dialogo della vita e della morte, di cui questa raccolta è riccamente intessuta. Il dialogo si accentua dopo la morte (“senza la tua morte/ sarei già morto/invece sono vivo e lo scrivo”, 95) ad indicare il persistere di questo affetto e promovendo la metamorfosi di Jucci in figura di pensiero, come possiamo leggere nelle sezioni Demoiselle Anglaise Come un eternit, in cui il tempo del ricordo agisce quale forza di “attrarre” e “spostare” i “luoghi” paragonando il lavoro secolare della “morena”(103) a quello della memoria. Molta lirica, del resto, ha fatto crescere sulla morte, sull’assenza della persona amata codici e canzonieri infiniti dove la sublimazione dell’amore ha dato vita a miti. Monumento perenne, dunque, anche per questa giovane Jucci che avrebbe rischiato di scolorirsi o di emarginarsi in un mondo déjà vu di modelli un po’ logori, inclini magari al sentimentalismo dolciastro. Buffoni, però, ha scelto di descrivere gli eventi con uno stile asciutto, con pochissimi aggettivi e avverbi, con verbi indicanti più l’effettualità del vivere e meno quelli dell’attestazione del rituale simbolico della poesia d’amore. Anche la corona delle immagini si sceglie un catalogo aspro: sono le alpi, frequentate dai due in dialogo perpetuo, attorno al Monte Rosa, non quelle turistiche, ma quelle di confine ai ghiacci che evocano il mistero e il sempre uguale del deserto. Non a caso il titolo della sezione Solo licheni e tundra proprio nell’omonima poesia di apertura (15) pone nello scrigno di una “lingua di ghiaccio profonda” il nascondiglio della poesia: “forse il tempo tiene lì la poesia”. Il paesaggio ci offre qualche sorgente, la “Vevera” fiume “femminile”, i “sentieri” dell’alpe Devero, osservati sulla cartina come fossero “sentieri dell’anima” (27). Qualche nome di paese “Taino”, “Bisuschio”, gli interni di un giardino dove fiorisce il “rododendro”, scorci di interni dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, dove si consuma il dramma della vita di Jucci. Si veda la sezione Colline di tulle nero, in cui la poesia della malattia assume alta drammaticità e forma di conoscenza, quasi con l’intensità “ospedaliera” di Amelia Rosselli e con accenti da metafisici inglesi, in cui la lotta tra ragione e sentimento si placa nella limpidezza delle immagini, come per le Gazzelle prigioniere o per Alla clinica della bambola. Buffoni decide di rarefare lo sfondo scegliendo il tema alpino e soprattutto il fascino della roccia. Questa, ricca di fossili di quello che un tempo era mare, che il poeta ritrova a volte sui sentieri, assume su di sé un’inedita metamorfosi. La donna si trasforma in roccia, in “profilo di pietra” come per gli omonimi picchi sottili del monte Bianco delle Demoiselles anglaises (crasi tra Les Demoiselles d’Avignon di Picasso e le Dames Anglaises del Monte Bianco) dal  profilo ardito e sottile come il segno di Lucio Fontana. Quei picchi suggellano il simbolismo del femminile: non solo l’idea di eternità poetica, ma anche quello di un arcaico esistere e consistere. La dura bellezza di questa natura-pietra -così lontana dal tempo delle città cornice a storie d’amore, a riconoscimenti a tradimenti verso altri sguardi- fa di Jucci una divinità ctonia, esempio di un naturale umanizzato (le “sopracciglia di forsizie”, lei che “torna betulla” (111). Per i paesaggi prospicienti alle alpi la descrizione di Buffoni si attiene a “solo licheni e tundra”, come ci dice il titolo della seconda sezione, a garantire la tensione perfetta dello stile, forse guardando ai licheni di Sbarbaro e a certi paesaggi aridi di particolari, monotoni eppur incisivi così proiettati verso un cielo del ricordo. Un esempio è nei versi di Per vedere dal cielo (87), in cui la prospettiva dall’alto acuisce i particolari ma cancella il troppo. E’ così per la poesia di Buffoni, vestita di una lingua asciugata dalle emozioni troppo forti, troppo gridate, ma dove la rima “fiore/dolore” (22) -che ricorda quella abusata e perciò difficilissima di “fiore/amore” in Saba- evita il tono di facile canzonetta, mettendo in luce tonalità di forza elegiaca, di canto funebre. Si legga Dove il fiume fa ansa, in cui il verso, anche ritmicamente, delinea i confini di luoghi incerti disegnati dalla corrente del fiume, che sono i campi elisi dove migra Jucci. Chiudendo questo libro di Franco Buffoni percorso da “ombre”, “vento”, e disegnato in “controluce” vorremmo ricordare una coppia di immagini interessanti racchiusa in questi versi:

“A te che invecchierai fino a decrepitezza/ Condannato per sempre a raccontare/ Della mia freschezza”.

È Jucci, ormai scomparsa, che parla. Ma oltre a lei parla, rievocando antiche immagini, l’idea della giovinezza infinita della poesia. Jucci, di Franco Buffoni, è anche questo.

Franco Buffoni