Roma
Roma. Ecco tua figlia – tua
come di un mondo uniforme –
svanita col cuore stretta
intorno al cellulare.
Glomerulo, emissione
che irradia le forme del viso
azzurre di una sola tristezza
volgare, tetramente fotografica.
Roma. In bus sulla Nomentana,
che è un nome in direzione Monterotondo.
E tutto intorno
tanti figli quanti figli disfatti
ancora in vita.
Niente si riconosce,
non una pietra in te si riconosce
in quest’epopea epica sterminata
di palazzi semafori e guardrail,
di sopraelevati ponti, intrico di strade
fitto sul reticolo che fu dei campi,
poi di prati sporchi e delle grotte.
Niente ti può rispondere l’ammasso definitivo
di lego armati di stentate tinte
e di cementi.
E nessun o poi ha chiesto niente.
Sono tanti, tanti e tristi,
sono tutti quanti tristi
senza sentire com’è, è accaduto
era e ora è,
e non perché niente come oppure dove …
Dovunque irrevocabilmente.
Siamo tutti tristi per cose piccole:
la scomparsa delle lucciole
dal verdescuro di un giardino, il nostro.
Allora eccoli sui piedistalli
farsi piccoli per cose tristi, trampolare,
cercare l’acquetta disperata
di una commozione verde mare:
un momento di pace dal tormento
di essere feroci e senza cuore,
(il grande mare)
l’agguato del terrore
alle anime belle sterminate:
preciso vero e puro,
senza alcun dubbio,
senza nessun errore.
Motivazione:
Squarci ambientali, che non si consegnano alla pacata misura descrittiva, ma sono forzati da spinte espressionistiche, costituiscono il materiale dominante per il quale trova voce una mistura di deprecazione e sdegno adatta a sviluppare in modo autonomo e originale un’occasione archetipica della poesia: l’immagine di una città. Solo che, nella circostanza, la città (e quale città!) non è destinata a una celebrazione, ma viene investita da una contromossa di corrosione, che per via di immagini e andamento narrativo si fa testimonianza di ansia, disagio, irrequietudine.
Pietro Baccino