Poesie dalla prigione. Mondo sommerso e desiderato nei versi di Mahvash Sabet

Il 10 gennaio 2018 presso la Casa della Cultura di Milano è stato presentato il volume della poetessa iraniana Mahvash Sabet Poesie dalla prigione (Milano, Edizioni del Verri, 2016) curato da Faezeh Mardani e Julio Savi. A introdurre l’opera oltre ai due curatori anche Barbara Anceschi e Giuliano Boccali. Cecilia Ghelli ha recensito la raccolta per il nostro blog.

 

Mahvash Sabet.

Le Edizioni del Verri hanno pubblicato in un elegante libro dalla copertina rosso fuoco le poesie di Mahavash Sabet, scritte in carcere e fortunosamente giunte in Europa. Mahavash Sabet è una iraniana, nata nel 1953 vicino ad Esfahan, che ha subito il carcere perché seguace della religione bahá’í, credo che predica l’unità delle diverse fedi e del genere umano, invocando l’armonia tra i popoli e l’appartenenza di essi a un’unica “razza”: quella umana. L’adesione e l’impegno culturale a questa religione, osteggiata e perseguitata dai fanatici come nemica dell’Islam, tanto che i seguaci di quella sono stati estromessi addirittura dalle scuole ed esclusi dalla società del tempo, ha condotto nel 2005 Mahvash Sabet nella cella d’isolamento 209 del carcere di massima sicurezza di Evin, vicino a Teheran. Dopo varie torture fisiche e psicologiche, nel 2010 la condanna a vent’anni di carcere. In prigione Mahvash riesce a guadagnarsi la stima e la simpatia delle altre carcerate proprio per la sua gentilezza e determinazione d’animo (in diverse poesie si parla di questa donne) e a scrivere di nascosto poesie che riesce, fortunosamente, a far uscire dal carcere. Queste giungono in Francia presso una scrittrice, Bahiyyeh Nakhjavani che le traduce in inglese e le pubblica ad Oxford nel 2013 con il titolo di Prison Poems. Saranno premiate l’anno dopo dal Pen International, che dal 1921 si batte per la libertà di espressione. Un anno e mezzo fa Mahvash Sabet è poi stata liberata.

Poesie dal carcere o in situazioni di grave compromissione della propria libertà sono sempre state scritte, tanto che la poesia si può anche leggere come vera e propria significativa figura di una forma di resistenza mitissima, perché si è espressa solo con le parole e non con la violenza, che invece è “figlia di egoismi e crudeltà, / erede di angosce, pene e tirannie!” (Violenza). Cosa poteva fare Mahvash nel carcere oltre ad essere presa dalla disperazione raddoppiata dal fatto che non aveva commesso nessun crimine? Scrivere poesie, e questa è stata una vera e propria “scelta consapevole”, come si è espressa Faezeh Mardani, docente di lingua e letteratura iraniana all’università di Bologna e curatrice del libro. E oggi possiamo leggere i testi in una traduzione proprio bella di Faezeh Mardani e Julio Savi che hanno fatto uno sforzo notevolissimo: piegare il ritmo del verso in lingua farsi, dolcissima all’ascolto, a quello di una poesia italiana moderna e contemporanea, cercando addirittura di trovare in alcuni casi delle rime che facciano risuonare quelle della poesia originale.

Poesie dalla prigione, Edizioni del Verri, 2016.

Poesie dalla prigione è un diario intimo che colloquia con l’impegno civile e si articola in diversi capitoli – (mura), (diario), (ritratti), (preghiere), (pensieri), (speranze), (Faribà), la compagna di prigionia e membro insieme a Mahvash dello Yaran, gruppo informale di persone che si occupava della comunità bahá’í e (altre dediche)- capitoli dai quali prende forma l’elenco dei fatti che si svolgono nel carcere, ma soprattutto il flusso di coscienza che attraversa l’animo della poetessa prigioniera e che si fa simbolo e giudizio su una condizione umana ed etica. In questo carcere Mahavash evoca, dallo spazio angusto della cella, la bellezza dell’aperto: città e soprattutto spazi di natura vasti o anche fiori e animali – erbario e bestiario fissati in immagini simboliche del rapporto natura/vita umana tipici della poesia persiana classica; il cielo arcaico e trasparente dell’Iran, luogo di proiezione di sogni e speranze; i ricordi della famiglia e delle persone amate e la condizione della prigionia. Questa è rappresentata dalle “mura” “incombenti …/…/ alte” si veda la sezione iniziale, dove passa il confine della lontananza e dell’infelicità che separa dai vivi: “da un’angusta feritoia guardo il mondo/ attraverso lo spiraglio di una notte buia” (Talvolta mi trovo a guardare: viene in mente, qui, San Juan de la Cruz). È questo il passaggio verso un mondo altro, quello dell’intimità e dell’amore famigliare, verso il quale il rammemorare è nostalgico – si veda (altre dediche) – ma anche verso quello di una religiosità – sezione (preghiere) – che traspare dal “tu”. Il “tu”, insistente voce di contrappunto, percorre molte poesie e non sempre pare ascoltare la prigioniera, la quale trova Dio in “una mela”, in un “pezzo di pane fresco” e dove Dio è “eco del sacro, fra amari/ lamenti di gente in gramaglie” (Frastuono). (ritratti) è la sezione più amara, ma anche quella che trasporta il lettore in un’atmosfera di comunità amicale, nonostante molte prigioniere siano condannate per reati comuni. In Mahvash prevale, però, non lo sdegno o l’indifferenza (“non sia mai /…/ che la polvere dell’indifferenza/ si posi sul mio capo” (Indifferenza), ma una dolente vicinanza a queste donne sue compagne di prigione: “Mentre silenziosa siedo/ sotto un solitario melograno sfiorito, / di tutte le compagne prigioniere/ sento sulle spalle il peso.” (Profumo di poesia). È proprio questa essenza che in prigione ha conquistato la vita e il pensiero della poetessa: la scoperta di un’alterità non di alto rango, ma povera e sofferente, che può comunicarsi attraverso semplici gesti e parole come ci dicono questi versi: “Se una sola parola d’amore qui proferisci, /è come acqua che spegne fiamme furiose” (Frastuono). Ed è questo che salva Mahvash Sabet condannata e innocente: “Per amore di queste donne languenti/sono tutta scintillio di sentimenti”. Tra i “ritratti” segnaliamo Senza linee di confine, dove appare l’amica Faribà Kamalabadi anche lei imprigionata a Evin, in cui le due amiche, come “chiari specchi appannati”, parlano “in quel limbo d’affanni” della “santità dell’uomo/spargendo profumo d’affetto”. E il senso della sua prigionia diviene Il giardino dei sogni che così si svela: “Ora nel giardino di questo carcere/ io coltivo il mio cuore/ e ne traggo tulipani d’amore.” Per Mahvash Sabet se “ci incatenano i piedi, subito/ volano gli albatri della mente” e questo volo produce effetti di felicità mentale racchiusa nel ricco elenco di immagini floreali, rigogliose e colorate, che discendono dalla tradizione della poesia persiana classica: “crescerò molti fiori, / gigli, nasturzi, ninfee/ gelsomini, narcisi/ e del sentimento /il purissimo fiore”.

Per invitare alla lettura di questo intenso ‘libro d’ore’ di poesia, ne scegliamo una brevissima e intensa, molto vicina ai modi della poesia odierna, che potrebbe piacere a Vivian Lamarque: L’anemone.

 

“Alla fine dell’inverno

innesto un anemone di campo

su un robusto oleandro,

caso mai ne sbocci

un anemone urbano.”

 

Cecilia Ghelli

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